Cerca nel blog

venerdì 19 novembre 2010

Lacrime di coccodrillo

"Piangere lacrime di coccodrillo" è un modo di dire di uso comune in italiano, che ha corrispettivi in numerose altre lingue. Si riferisce a chi finge di essere pentito di una cattiveria commessa; Pentirsi in modo falso e tardivo, comportarsi da ipocrifi..
Il detto trae origine dal mito secondo cui i coccodrilli versano lacrime di pentimento dopo aver ucciso le loro prede o dopo averle divorate. Esistono diverse varianti di questo mito; spesso la credenza è riferita in modo specifico al caso di coccodrilli che divorano prede umane, ma in alcuni casi viene anche riportato che a piangere sarebbe la femmina di coccodrillo che ha appena divorato i propri piccoli.
La femmina di coccodrillo in effetti, che depone le numerose uova sulla terraferma, dopo la nascita dei piccoli li trasporta in acqua, al sicuro dai predatori, mettendoli in bocca. Durante questa operazione, la lacrimazione aumenta di intesità. I coccodrilli lacrimano, talvolta anche in modo vistoso, per motivi fisiologici. Tali lacrime hanno lo scopo di ripulire il bulbo oculare e lubrificarlo in modo da facilitare il movimento della seconda palpebra che lo protegge in immersione. La lacrimazione aumenta se il coccodrillo rimane a lungo fuori dall'acqua
Ha quindi un carattere biologico non emotivo!
Questo mito risale almeno al XIII secolo, e fu diffuso nella cultura popolare europea, fra l'altro, dal libro Viaggi di Giovanni di Mandeville, del XIV secolo. Lo stesso William Shakespeare venne in contatto con questa leggenda, a cui fa riferimento in un passo dell'Otello:


"Demonio,sì,demonio!Se la terra potesse partorire fecondata da lacrime di femmina, ogni goccia sarebbe un coccodrillo!"

In realtà

Sembra accertato che le lacrime dei coccodrilli siano in realtà il modo utilizzato da questi animali per eliminare i sali che si accumulano nel loro organismo, come in quello di tutti gli esseri viventi che sopravvivono nutrendosi. Non avendo la sudorazione i coccodrilli possono espellere i sali solamente attraverso le lacrime e gli escrementi.

Per un punto Martin perse la cappa

Per dire che basta un niente, a volte, a provocare un disastro, il fallimento di un progetto meditato, d'una lunga fatica. Questa curiosa espressione deriva da un aneddoto che ebbe molto credito nel medioevo.
Secondo la tradizione, che risale al XVI secolo, Martino era abate del monastero di Asello. Volendo abbellire la sua abbazia, decise di apporre sul portale principale un cartello di benvenuto che recitasse: "Porta patens esto. Nulli claudatur honesto" ossia "La porta sia aperta. A nessuna persona onesta sia chiusa" (oppure anche "Porta, rimani aperta. Non chiuderti a nessun uomo onesto").

La frase era bella e ospitale ma chi esegui' l'incisione, nello scriverla, mise il punto dopo la parola nulli anziche' dopo esto.
L'iscrizione divenne cosi': "Porta patens esto nulli. Claudatur honesto" ossia "La porta non sia aperta a nessuno. Sia chiusa alle persone oneste".

Lo scandalo prodotto dalla trasposizione del punto fu enorme, e il papa dovette privare Martino della carica di abate.  A ricordare l'errore di Martino provvide il suo successore, che fece correggere l'iscrizione errata, completandola con la frase "Uno pro puncto caruit Martinus Asello (o Ob solum punctum ...)" ossia "Per un unico punto Martino perse Asello" che e' il corrispondente latino del modo di dire molto diffuso nella lingua italiana e radicato nella memoria orale che e' per l'appunto "Per un punto Martin perse la cappa".

La frase "Per un punto Martin perse la cappa" viene, quindi, citata oggi per indicare la perdita, per una disattenzione, di qualcosa d'importante e di desiderato.